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Papa Francesco ha autorizzato la Congregazione delle Cause dei Santi a promulgare i decreti riguardante il miracolo attribuito all’intercessione del Beato Paolo VI. Papa Montini sarà canonizzato nel mese di ottobre.

Sarà proclamato santo anche il Beato Oscar Arnulfo Romero, arcivescovo di El Salvador, ucciso – in odium fidei il 24 marzo 1980 mentre celebrava Messa – da un governo che non rispettava i diritti umani, che tollerava squadroni  della morte, che fomentava la guerriglia.

A differenza di quanto hanno cominciato a strombazzare su certa stampa (anche radiotelevisiva) progressista, c’è da dire che Oscar Romero è stato un vescovo santo che non c’entrava nulla con la teologia della liberazione.

È stato un grande pastore, un vero uomo di Dio, la cui figura è stata speso strumentalizzata e incasellata in uno schema, quello politico o della teologia della liberazione, che non gli apparteneva.

«Romero è nostro» disse Giovanni Paolo II visitando la sua tomba nel 1983. «Nostro», della Chiesa intera. Quello di Romero fu un sacerdozio vissuto nell’adesione piena alla tradizione cattolica, segnato da una profonda pietà e da una cristallina vita spirituale.

Lo storico Roberto Morozzo della Rocca spiegava ad Avvenire che Romero «era un uomo di Chiesa  tradizionale, molto fedele al Magistero e a Roma».

In una pagina dei suoi Esercizi spirituali datata un mese prima del suo  assassinio, Oscar Romero, che aveva capito che sarebbe stato ucciso, scriveva  di aver rifatto la consacrazione al cuore di Gesù, devozione a lui molto  cara, e annotava: «Accetto con fede in Lui la mia morte per difficile che  sia. Non voglio darle una intenzione come pur vorrei per la pace del mio Paese e per la fioritura della nostra Chiesa. Perché il cuore di Cristo  saprà darle la destinazione che lui vorrà. Mi basta per essere felice e  fiducioso sapere con sicurezza che in Lui, nel Signore, sta la mia vita  e la mia morte».

I giornalisti disonesti dovrebbero leggere gli scritti e le omelie di Romero per cogliere l’impostazione tradizionale della sua formazione spirituale e la sua naturale estraneità ai nuovismi teologici.

«Se c’è un titolo che mi inorgoglisce è questo: il catechista. Io voglio essere solo questo: il catechista della mia diocesi», disse in un’omelia domenicale del settembre ’79.

Il 60 per cento della letteratura consultata da Oscar Romero riguardava la vita mistica e la santità. Tra gli autori cari alla sua gioventù si notano il predicatore san Crisostomo, il difensore della fede dei semplici sant’Ireneo, e poi Roberto Bellarmino, Columba Marmion, Jules Lebreton. Uno spazio consistente era riservato a testi di devozione al Sacro Cuore di Gesù.

I suoi temi sociali riprendevano gli scritti di sant’Ambrogio contro l’oppressione dei poveri e quelli del profeta Neemia sull’usura e lo sfruttamento.

Romero non parteggiò per nessuna corrente dialettica, esistenziale ed ermeneutica della teologia della liberazione, della Nouvelle Theologie o di quella teologia protestante che dall’inizio del secolo forgiò una nuova cultura teologica, i cui venti soffiano ancora presso le università d’Europa, suscitando uragani di crisi di fede tra gli studenti e dentro la Chiesa stessa.

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