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Il blog francese Le Salon Beige ha scritto che le diocesi di Perpignan, Montpellier, Nimes e Carcassonne organizzano congiuntamente la raccolta del denaro per l’anno 2018. Ciò consente risparmi di spese in merito alla promozione massmediatica dell’iniziativa. Per realizzare l’immagine visiva si chiede solitamente un’immagine di un giovane sacerdote. Quest’anno si è trattato di un giovane prete di Perpignan. Ma quando dalla foto originale si è scoperto che il giovane indossa la tonaca, di solito e serenamente, ai “leader” diocesani è sembrato impossibile dare una simile immagine del clero! Risultato? Tre diocesi su quattro hanno corretto l’immagine, smacchiando la tonaca per cercare di far percepire visivamente che il prete indossasse jeans  e camicia scura. La correzione della tonaca è risultata abbastanza grottesca. L’unica diocesi che ha avuto il coraggio di utilizzare la foto originale non è stata nemmeno quella del prete ma quella di Carcassonne.

Ricordiamo, con il cardinale Giuseppe Siri (1906-1989), che è stato per svariati anni arcivescovo di Genova, l’importanza di un abito ecclesiastico decoroso.

La talare, detta tunica, o tonaca, è l’abito ecclesiastico per eccellenza (l’altro, il clergyman, nero o grigio scuro, con il colletto romano, in realtà è solo permesso). Di fatto si assiste da decenni ad una grande decadenza dell’abito ecclesiastico. Le esibizioni sono di tutti i gusti e i mass media, senza pudore, parteggiano per preti con jeans e maglietta.

Ma qual è il significato dell’abito ecclesiastico per i cattolici. Lasciamo la spiegazione alle riflessioni del cardinal Siri, di venerata memoria.

«L’abbigliamento, infatti, impegna per la vestizione, per la sua conservazione, per la sostituzione. E’ la prima cosa che si vede, l’ultima che si depone. Esso ricorda impegni, appartenenze, decoro, colleganze, spirito di corpo, dignità! Questo fa in modo continuo. Crea pertanto dei limiti all’azione, richiama incessantemente tali limiti, fa scattare la barrire del pudore, del buon nome, del proprio dovere, della risonanza pubblica, delle conseguenze, delle malevoli interpretazioni. Obbliga a riflettere, a contenersi, ad essere in consonanza con l’ambiente al quale l’abito ci ascrive. Ha la capacità di dare, per salvaguardare quel pudore, una forza che senza di esso non esisterebbe affatto; riesce ad impedire che si oltrepassino certe soglie; trattiene le espansioni, le curiosità morbose. Un sorvegliante attento non riuscirebbe affatto; riesce ad impedire quanto può impedire l’abito che si porta e che ci qualifica. Per tale motivo, da sempre, le civiltà, in tutte le forme, anche rimaste congelate nei secoli, hanno affidato alle divise il compito di conservare compattezza, lucidità circa i propri obblighi, le proprie funzioni, le proprie responsabilità. Le rivoluzioni che hanno voluto distruggere tutto, sovvertendo la funzione delle divise, hanno dovuto ben presto cedere a farne altre. Sottovalutare nei confronti della umana natura l’importanza dell’abito e delle divise è non capire affatto la natura, la storia, la debolezza umana, la labilità della psicologia degli uomini e delle donne. Tutto questo porta ad una chiara conclusione, alla quale rimando».

«Svanita la presenza dell’abito, svanisce quello che esso suggerisce, resta aperto il campo ad ogni debolezza; tutte le tendenze e le sollecitazioni si fanno prepotenti, e – salva sempre l’azione della grazia – sotto questo aspetto non esiste più protezione. Nei giovani, l’impulso, la curiosità, il fremito della vita, la sua esuberanza fanno sì che l’assenza della divisa diventi più compromettente che negli adulti. Nella vita ecclesiastica e nella professione religiosa le prove da evitare, i pericoli da sfuggire sono ben maggiori che nei laici ed hanno pertanto più bisogno degli altri di essere sostenuti da un abito impegnativo. La prova patente verrà in quello che dirò appresso. Molti hanno vinto l’ultima, decisiva spinta della tentazione solo perché avevano un abito, una divisa qualificante addosso. Per tale motivo la questione della divisa ingigantisce nel campo ecclesiastico e si impone all’attenzione di quanti vogliono salvare vocazioni, perseveranza negli accettati doveri, disciplina, pietà, santità! Tutto quello che vengo dicendo ha nei Paesi latini una ragione ben maggiore che nei Paesi anglosassoni. La ragione è che in tali Paesi l’abito “corto” o “clargyman” fu imposto dalla situazione non sempre serena di diaspora in Paesi a maggioranza protestante; un desiderio di liberazione. Nei Paesi latini l’abito non talare fu il  desiderio di una maggiore indipendenza. Ed è questo che crea il problema. Diversamente si dovrebbe ragionare, se solo fosse una questione di fungibilità. Ma non lo è affatto ed è inutile, oltreché dannoso, illudersi».

«Quel che succede altrove dice quello che succederà tra noi domani, se oggi non avremo disciplinatamente un indirizzo di giusta austerità in fatto di vestito. Succede (altrove, a Genova il caso è stato più unico che raro) che si comincia a togliere il colletto romano al clergyman, cioè l’unico elemento vero che classifica. Alcuni hanno già adottato, in aperta violazione del Decreto della CEI, l’abito grigio chiaro, conservando tuttavia il colletto romano. Poi si arriva al maglione scuro, e tale colore fa presto a schiarirsi, con tutto il resto dell’abbigliamento. Finalmente siamo all’abito borghese, senza alcuna riserva. Analogamente succede che in talune città d’Italia (non citiamo ovviamente i nomi, ma siamo ben sicuri di quello che diciamo) per l’assenza di ritegno imposto dalla sacra divisa si arriva ai divertimenti tuttavia proibiti dal Codice di Diritto Canonico, ai night clubs, alle case malfamate e peggio. Sappiamo di retate di seminaristi fatte in cinema malfamati ed in altri non più consigliabili locali. Tutto per colpa dell’abito tradito!».

«È difficile usare la parola popolo. Certo è che non sono “popolo” gruppuscoli, votati alla distruzione, non delle strutture soltanto, ma della Chiesa di Cristo. Neppure sono “popolo” ristretti ambienti legati ormai solo dal comune odio verso chi difende la Verità e la tradizione cattolica, come se questa non fosse altra cosa dalle altre tradizioni, e non fosse di origine divina. Nemmeno sono “popolo” coloro che nella Chiesa sabotano quanto fanno i Pastori a qualunque livello, portano alla perversione disgraziati preti e disgraziati frati. “Popolo” è quello che va in chiesa con umiltà e devozione, che forse non va più in chiesa, ma che crede ancora e, nei momenti in cui dimostra questa Fede, ragiona secondo il catechismo, rispetta le cose sacre, ha un concetto teologico del ministero sacerdotale, fa celebrare le sante Messe, va al cimitero e qualche volta col santo timore di Dio, ma senza presunzione, o prima o poi pensa alla vita eterna. Popolo sono tutti coloro che non vogliono saperne di preti e di Chiesa, ma al primo guaio, al momento dell’abbandono degli altri, quando la disgrazia bussa alla porta, ricorrono ai propri anche umili Pastori, dando così un’attestazione inequivocabile del loro giudizio sulla Fede. Nelle visite pastorali ho raccolto tanti episodi da poterne scrivere un gran libro di “Fioretti”. Questo “popolo”, da noi, sono ancora i più. I molti che se ne staccano al tempo del carnevale giovanile, poi alla chetichella, o prima o poi, li trovate alla Guardia ed a tutti i Santuari… Ecco allora quello che pensa questo “popolo”. In genere si scandalizza del prete senza l’abito talare; immaginate che pensa quando il prete non ha alcun abito ecclesiastico. Lo schermo dei pochi, contenti di rovinarci, non serve e non illude il vero “popolo”. Qui da noi ormai disertano il confessionale del prete senza talare. A Genova, e non in un posto solo, ho sentito di peggio e tale che non oso qui riportarlo. I casi in cui i preti o il prete rimasti con la talare sono pubblicamente preferiti aumentano ogni giorno. Il “popolo” avrà i suoi peccati, ma ha una sua severità di giudizio».

Il bilancio che ne consegue?

«Eccolo: – Disistima; – sfiducia; – Insinuazioni facili e talvolta gravi; – Preti che, cominciando dall’abito e dallo smantellamento della prima umile difesa, finiscono dove finiscono… ; – Crisi sacerdotali, del tutto colpevoli, perché cominciate col rifiuto delle necessarie cautele, richieste dal Diritto Canonico e dal consiglio dei Vescovi…, con risultati disgraziati e sposati…; – Seminari che si svuotano e non resistono; mentre nel mondo, tanto in Europa che in America, rigurgitano i seminari, ordinati secondo la loro genuina origine, col rigoroso abito ecclesiastico, nella vera obbedienza al Decreto conciliare Optatam totius; – Anime che si trascinano innanzi senza più alcuna capacità decisionale, dopo la loro contaminazione col mondo. L’abito è la “porta”!»

«La mancanza di continuità e di rispetto nell’uso dell’abito ecclesiastico demolisce la prima difesa. La distinzione dal mondo non esiste più. Il rimanente è facile intuirlo. L’obbedienza, lo spirito di sacrificio, la prontezza alla dedizione, la pietà profonda diventano a poco a poco chimere. La spavalderia prende il posto dell’educazione, l’esibirsi sostituisce il distacco dal mondo e l’umile educato contegno che lo connota. La contestazione (alla quale si debbono ascrivere le terribili crisi del poi, quando le responsabilità sostituiscono ogni stile canzonatorio) prende il posto dello spirito ecclesiastico e miete le sue grandi vittime! Credo difficile possa esistere nel nostro tempo, proprio per le sue caratteristiche, lo spirito ecclesiastico senza il desiderio e il rispetto dell’abito ecclesiastico».

«Il clergyman non è l’abito normale. Alcuni, per boicottare l’uso della talare o per giustificarsi nell’aver ceduto alla moda corrente contraria all’abito talare, affermano: “Tanto la talare è un abito liturgico”, volendo così esaurire l’eventuale uso della talare alla sola liturgia. Questo è apertamente falso e capziosamente ipocrita! Le ragioni sono doversi: la più evidente è fornita dalla prassi secondo cui la talare non solo è mai stata sufficiente per la celebrazione dei sacramenti e sacramentali, ma non è mai stata considerata nemmeno come abito corale. Alla liturgia la talare è ordinata non solo per la immediata azione sacra, ma in quanto di tale azione sacra ne estende la forza, la dignità e la santità all’intera vita del sacerdote, caratterizzata dalla perenne preparazione e continuazione dei sacri misteri che celebra. La legge mette tante limitazioni all’uso del clergyman che chi vuole osservarla e tenersi il suo clergyman deve girare tutto il giorno con sotto il braccio la talare stessa o il clergyman. So bene che c’è chi non pone alcun caso alla legge, ma debbo dirgli che Dio, futuro giudice, non è affatto di questo avviso. Francamente è chiaro che il clergyman è una concessione fatta e tollerata per la fungibilità soltanto, che lo stesso clergyman non è la soluzione più desiderata. Chi non ama la sua talare resisterà ad amare il suo servizio a Dio? Il prossimo non sostituisce Dio! Non è soldato chi non ama la sua divisa».

«L’indirizzo da darsi è: – che anche se la legge ammette il clergyman, esso non rappresenta in mezzo al nostro popolo la soluzione ideale; – che chi intende avere integro spirito ecclesiastico deve amare la sua talare; – che soltanto una ragione di fungibilità, direi a malincuore, potrà autorizzare a servirvi dell’abito corto ammesso; – che la difesa della talare è la difesa della vocazione e delle vocazioni. Il mio dovere di Pastore mi obbliga a guardare assai lontano. Ho dovuto constatare che la introduzione del clergyman oltre la legge e le depravazioni dell’abito ecclesiastico sono una causa, probabilmente la prima, del grave decadimento della disciplina ecclesiastica in Italia. Chi vuol bene al sacerdozio, non scherzi con la sua divisa!».

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