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Papa-Francesco-Messa-a-Rebibbia-L-amore-di-Gesu-non-delude-mai_articleimageIl grido di Giovanni Paolo II e il mite ma fermo no alla Mafia di Benedetto XVI hanno prodotto i loro frutti in Sicilia. «Quel memorabile 9 maggio del 1993 – racconta in esclusiva a LA FEDE QUOTIDIANA il giornalista del TG5 Carmelo Sardo – ero davanti al grande palco di piano San Gregorio, nella Valle dei Templi, per la messa di chiusura del viaggio agrigentino di Giovanni Paolo II°. Quando lanciò quell’anatema ebbi una vibrante emozione. Quel suo grido “convertitevi, un giorno verrà il giudizio di Dio” scosse le coscienze di molti criminali, di molti mafiosi. Ed ebbe l’effetto di convincere qualcuno di loro, non molti, a ravvedersi e a pentirsi, nel senso buono del termine, non solo giudiziario. Sì, credo che abbia avuto il suo effetto. Come quelli di Benedetto XVI e di papa Francesco: quest’ultimo in particolare credo sia il più amato tra i carcerati, tra gli ergastolani, che confidano molto nella misericordia divina».

Nativo di Porto Empedocle (provincia di Agrigento), vice capo redattore cronache del TG5 (dove è stato assunto da Enrico Mentana a partire dal 1º luglio 1998), già  inviato della trasmissione di Rai Due “Cronaca in diretta”, Carmelo Sardo da cronista, per anni, si è occupato di inchieste sulla mafia agrigentina. Proprio su questa tematica e sui suoi scritti (il suo primo romanzo, Vento di tramontana, è uscito il 2 marzo del 2010, mentre lo scorso anno è uscito Malerba, sempre per la Mondadori) lo abbiamo sentito.

Mafiosi e pseudo-fede religiosa. Può raccontarci qualche “chicca” riscontrata in vari anni di attività?

«Storicamente i mafiosi hanno sempre ostentato la pratica della fede cristiana. Un tempo non si perdevano mai la messa della domenica. Frequentavano chiese e preti, ed erano sempre in prima fila alle feste patronali. Ancora oggi in molte realtà continuano certe tradizioni, tanto che al sud, in Calabria in particolare, ci sono state polemiche per i cosiddetti inchini che durante le processioni i portatori fanno fare al simulacro dei vari santi festeggiati. Ricordo che entrai molti anni fa nel covo di Pietro Aglieri, un pericoloso boss di Bagheria, arrestato il giorno prima, e trovai un vero e proprio santuario con simulacro di Madonna e di Cristo, panche con inginocchiatoi per pregare: una piccola cappella. Ecco mi colpì molto perché neppure durante la latitanza i capi mafia rinunciano a coltivare la fede (vera o presunta che sia)».

 Che ricordo ha del giudice Livatino, prossimo beato e perché ha definito la sua morte “disfatta dello Stato” e “fine di un giudice solo”?

«Ricordo molto bene il giudice Livatino. A quel tempo facevo il cronista di nera e di giudiziaria e frequentavo il palazzo di giustizia di Agrigento. Era una persona per bene, un magistrato irreprensibile. Schivo, se vogliamo, poco incline a parlare con i giornalisti. Riservato. Ma profondamente competente e umanamente inappuntabile. Casualmente me lo sono ritrovato davanti in una cerimonia al tribunale e gira una foto su Internet che ritrae lui in primo piano e io alle sue spalle. Qualche giorno dopo l’ho rivisto crivellato di proiettili in fondo a una scarpata, ucciso da quattro barbari criminali. Un giudice solo, che non aveva scorta, trucidato come un cane. La disfatta dello Stato che non sa proteggere i suoi uomini più esposti».

Cosa può dirci di qualche personalità della Chiesa che ha conosciuto e che l’ha impressionata per la sua dedizione agli ultimi e per l’impegno antimafia?

«Nella mia più che trentennale carriera, soprattutto in Sicilia, ho conosciuto molti preti, giovani e anziani, che si sono attivati a favore degli ultimi e altri (non moltissimi) che si sono schierati in prima fila nella lotta alle mafia. A parte coloro che riescono a conquistare le prime pagine dei giornali per minacce ricevute, qui mi piace citare un mio amico prete che senza grandi clamori ha fatto molto e continua a fare molto su questo fronte in una terra difficile come l’agrigentino, storicamente roccaforte di cosa nostra. Questo prete è don Angelo Chillura e purtroppo il suo impegno non è sfuggito a chi si sarà sentito infastidito visto che anche di recente don Angelo ha subito vili intimidazioni».

I suoi due romanzi, Vento di tramontana e Malerba, hanno avuto un grande successo. Malerba è stato tradotto in molte lingue e diventerà un docu-film. Su cosa ha puntato nella stesura dei testi. C’è qualche aspetto, legato alla fede, che vorrebbe sottolinearci in merito ai due testi che ha scritto?

«I due romanzi che fin qui ho scritto “Vento di tramontana” e “Malerba” (quest’ultimo scritto a quattro mani con l’ergastolano Giuseppe Grassonelli) per quanto appaiano diversi fra loro, hanno in comune l’ambientazione e la passione di indagare il percorso di svezzamento e di maturazione dell’uomo. Nel primo il protagonista è un giovane agente di custodia nel secondo un killer che vendica lo sterminio della sua famiglia. Mi interessa antropologicamente il percorso di questi due protagonisti, così diametralmente opposti, ma così simili nella fiducia che ripongono nella vita, nella cultura, nella rinascita etica e morale. Uno dei temi centrali di “Malerba” è in qualche modo il perdono che ricerca il protagonista pur senza passare attraverso l’istituto giuridico della collaborazione con la giustizia. Malerba non vuole pentirsi formalmente, ma si pente moralmente e umanamente, e questo credo sia un atto d’amore straordinario verso l’uomo».

Spesso notiamo che molti giornalisti estrapolano le parole del Papa o di uomini di Chiesa a convenienza (spesso politica), come è successo sul recente documento finale del Sinodo. Cosa consiglia un puntuale giornalista come lei ai vaticanisti?

«Non pretendo di possedere qualità che mi mettano nelle condizioni di distribuire consigli ai colleghi vaticanisti. Ma da utente, prima ancora che da giornalista, mi piacerebbe poter chiedere loro di usare un linguaggio quanto più possibile vicino alla gente. Spiegare quello che dice il Papa con parole accessibili. Spesso leggo frasi ridondanti che capiscono solo gli addetti ai lavori. Da giornalista mi permetto timidamente di far notare che bisogna sempre sapere distinguere i fatti dai commenti. Le strumentalizzazioni lasciamole ai politici di professione che con quelle, purtroppo, ci campano».

Matteo Orlando

Un pensiero su “Carmelo Sardo: “Papa Francesco è amato dai carcerati, che confidano nella misericordia divina””

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