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Andrea Grillo, classe 1961, teologo laico, docente di Teologia dei sacramenti e Filosofia della Religione presso il Pontificio Ateneo S. Anselmo di Roma e di Liturgia presso l’Abbazia di Santa Giustina a Padova, ha attaccato fortemente la Commissione Pontificia Ecclesia Dei perchè ha autorizzato la celebrazione della Settimana Santa secondo il rito anteriore alla riforma di Pio XII, che è del 1955.

In un articolo pubblicato il 2 aprile 2018 nel blog Come se non, dal titolo vagamente persecutorio (“Una Settimana santa ‘da museo’ e la degenerazione della Commissione Ecclesia Dei”) il teologo progressista ha  scritto che, secondo lui, “si tratterebbe di una ulteriore radicalizzazione della contestazione alla Riforma liturgica conciliare”, che queste autorizzazioni avvengano “al di fuori della ‘competenza’ che il MP Summorum Pontificum (= SP) attribuisce alla PCED, essendo la possibile eccezione al Messale di Paolo VI riservata soltanto in rapporto al Messale di Giovanni XXIII, del 1962. In questo caso la Commissione Ecclesia Dei amplierebbe arbitrariamente la normativa chiara di SP, creando una situazione di questo genere: si può celebrare secondo il messale del 62 in deroga al 69, ma in questo caso si può celebrare in deroga al messale del 62 secondo gli Ordines della Settimana Santa anteriori alla riforma del 1955. Si tratterebbe dunque di una contestazione del rito del 1962 – quella che un precedente Presidente della PCED chiamava la ‘grande riforma di Giovanni XXIII’, rispetto a cui viene autorizzato l’uso di un ordo precedente”.

Da Roma, scrive Grillo, “viene una decisione – sia pure ad experimentum e ad tempus, come risulta dalla fonte non ufficiale – di autorizzare l’utilizzo di un rito che nel 1955 era stato autorevolmente e universalmente riformato. Essere immuni dalle riforma – del Concilio o di Pio XII – sembra essere diventato un valore, di cui Ecclesia Dei si fa scrupolosa custode”.

Poi aggiunge: “il rito anteriore a Pio XII – quello che diremmo ‘tridentino puro’ – appare, oggi, del tutto improponibile, se non per alimentare una Chiesa ridotta a museo diocesano o a coltivazione di attaccamenti nostalgici al limite della patologia sociale prima che personale. In tutto questo, come è evidente, la attenzione deve concentrarsi sulla PCED, a proposito della quale si deve osservare quanto segue: – constatiamo che ha voluto assumere una decisione che travalica le sue competenze e dobbiamo chiederci: a quali controlli è sottoposta o può essere sottoposta? Il Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede – che ne è Presidente – ne è informato? E perché mai una commissione che è nata dalla costatazione di una ‘afflizione’ della Chiesa (Ecclesia Dei adflicta…recita l’incipit del testo istitutivo) è diventata una commissione non di ‘afflitti’, ma di ‘affezionati’, che non sono più di freno e di filtro, ma appaiono essere di sponda e di incentivo ad ogni ‘nostalgia liturgica’? Perché mai i criteri di ‘assunzione’ nella Commissione sembrano essere diventati – o forse sono stati fin dall’origine – una certa simpatia verso quelle ‘forme’ che ‘affliggevano’ la Chiesa? Potrebbe mai una commissione di controllo essere costituita soltanto da coloro che dovrebbero essere controllati? Quis custodiet custodes? – ma osserviamo anche un ulteriore questione, ossia che la Commissione non riesce a riconoscere il dato prezioso per cui la ‘forma liturgica’ e il ‘contenuto teologico’ sono strettamente connessi e non si possono separare. E’ quasi costretta a operare ‘come se’ le diverse forme liturgiche del medesimo rito fossero indifferenti rispetto al ‘contenuto dogmatico ed ecclesiologico’ che mediano. Deve quasi necessariamente professare una ‘logica preconciliare’ di comprensione della liturgia per svolgere il proprio ministero, che fino a prova contraria deve essere ‘al servizio’ e non ‘contro’ la riforma liturgica. – infine essa non sembra avvertire che, per il fatto di aver autorizzato una tale prassi difforme anche rispetto al messale del 1962, contribuisce a rendere vane e vuote le affermazioni fondamentali e comuni a tutta la Chiesa che il giorno della epifania vengono universalmente proclamate e che riconoscono il ‘triduo pasquale’ come il centro di tutto l’anno liturgico. Se si autorizza la celebrazione secondo un ‘ordo’ che non ha (ancora) il triduo pasquale – ma ha piuttosto un triduo della passione e un triduo della resurrezione giustapposti – si introduce un elemento di profonda crisi nella comunione ecclesiale. Si rischia di continuare ad affermare la autonomia della Passione dalla Risurrezione”.

L’articolo inquisitorio così si conclude: “Se si autorizza a celebrare un triduo che è ancora parte del ‘tempo di quaresima’, e non è ancora Pasqua, si lede il livello più profondo della comunione ecclesiale nel suo stesso centro. Come può una Commissione pontificia non vedere questo enorme errore in ciò che permette di sperimentare? Come fa a non accorgersi dello svarione spirituale, ecclesiale e liturgico che autorizza? Se un organo, che è nato nel 1988 per risolvere la ‘questione lefebvriana’ e che nel 2007 ha acquisito maggiori competenze dopo SP, oggi arriva a travalicare le proprie competenze e addirittura ad incentivare comportamenti devianti all’interno della comunione ecclesiale, finisce col creare più problemi di quelli che risolve; allora si dovrà concludere che una parte non secondaria di questi problemi sia oggi rappresentato non dalle singole questioni sollevate, ma dalla Commissione stessa. […] una parte non piccola del problema liturgico di oggi è rappresentato dalla inadeguatezza teologica e dalla incompetenza liturgica della Commissione Ecclesia Dei, che risulta incapace di tutelare e di promuovere la continuità della tradizione liturgica successiva al Concilio Vaticano II ed anzi la mina esplicitamente. Ciò corrisponde, in modo piuttosto singolare, ad una parallela e sofferta gestione della Congregazione del Culto – cui peraltro è sottratta questa delicata ‘materia liturgica’, sottoposta invece alla giurisdizione della Congregazione della Dottrina della fede. Intorno alla liturgia vi è troppa confusione – certo non attribuibile all’attuale pontificato – e a farne le spese è proprio quel ‘magnum principium’, quel lineare orientamento alla “partecipazione attiva” del popolo al rito cristiano, che è frutto preziosissimo del Concilio Vaticano II e rispetto al quale spesso si preferisce sostenere o la tutela di ‘musei pasquali’ come questo o la paralisi devota di una assistenza silenziosa al culto. In tal senso la ‘collaborazione’ tra Commissione Ecclesia Dei e settori non secondari della Congregazione del Culto rischia di minare in radice il cammino della Riforma Liturgica, dal centro verso la periferia. Occorre una svolta seria e serena, che riconosca efficacemente che cosa è centrale e che cosa deve essere lasciato cadere, mettendo energicamente da parte stili curiali poco degni non dico di un ‘Chiesa in uscita’, ma quanto meno di una Chiesa minimamente interessata al fatto che esista qualcosa al di fuori di sé medesima, del suo piccolo mondo antico fatto di attaccamenti nostalgici e di risentimenti antimoderni”.

4 pensiero su “Durissimo attacco del teologo laico Andrea Grillo alla Commissione Pontificia Ecclesia Dei”
  1. Caro Direttore,
    purtroppo la rilevanza accademica, pastorale e mediatica ormai assunta da Andrea Grillo rende tragicamente evidente quanto il processo di protestantizzazione (ma io direi di secolarizzazione) della Chiesa Cattolica sia ormai quasi completamente compiuto.
    Per questo dovremmo andare a rileggere nella Sacra Scrittura le conseguenze patite dal popolo di Israele per avere abbandonato l’Alleanza con Dio.
    Un caro saluto e grazie per il vostro prezioso lavoro di informazione.

  2. Il professor Grillo, che ancora una volta veste i panni della vestale del Novus Ordo, riversa in questo articolo fiumi di parole contro tutto e contro tutti, ma non tocca minimamente il problema, a dir poco scandaloso, presente nel messale del 1962 dove non si legge mai, in tutto l’anno liturgico, la pericope evangelica del racconto dell’Istituzione eucaristica. Mentre proprio fino al 1955 tale pericope si leggeva ben tre volte durante la Settimana Santa. Se la sparizione di questa fondamentale pericope evangelica fu fatta volutamente, mostra intenzioni poco nobili. Se invece la sparizione del racconto dell’Ultima Cena fu casuale dimostra superficialità intollerabile in lavori delicati come questo! Nella riforma del 1955 ci sono poi altri elementi contradditori come il trasporto del Sacramento al Venerdì santo, che si impone di fare quasi alla chetichella! (a proposito: in antico il Venerdì santo non si celebrava messa ma non si faceva neppure la Comunione, neppure da parte del celebrante!…) La riforma del 1955 ha poi introdotto il trasporto del cero acceso. Ma in epoca molto antica il cero pasquale raggiungeva spesso dimensioni ciclopiche. Come faceva il povero diacono a trasportarlo?
    a parte questo punto scandaloso, veniamo ad altre questioni: i riti anteriori al 1955 più che “tridentini puri” si dovrebbero chiamare “tradizionali puri”. Egeria, che scrive nel IV secolo e riferisce della liturgia gerosolimitana, dà la medesima collocazione temporale ai riti del sabato Santo (si, Egeria riferisce esplicitamente proprio al sabato i riti dell’ufficio della vigilia di Pasqua, cfr. Egeria, Pellegrinaggio in Terra Santa, Città Nuova anno 2000- pag. 166), una collocazione tra Nona e Vespri. che è la medesima collocazione giunta fino al 1955 che, com’è risaputo, terminano coi Vespri. La questione della celebrazione in ora antimeridiana è tutta un’altra cosa, con le sue cause millenarie, e le sue motivazioni. se prima si rompe il legame tra rito e digiuno, si finisce indubbiamente per non capire più neppure certi aspetti del rito. Se si praticasse la disciplina penitenziale del digiuno come la si praticava ancora nel IV secolo (Egeria la descrive nei particolari a pag. 152 dell’opera citata) forse si capirebbe il motivo per il quale i riti della vigilia di Pasqua hanno finito per essere celebrati al mattino del sabato, cosa indubbiamente anacronistica. molto anacronistica. Ma anche molto molto semplice da risolvere in quanto basterebbe seguire fedelmente le indicazioni rubricali che stabiliscono appunto di iniziare la veglia dopo l’ufficio di Nona.

    La veglia pasquale giunta fino al 1955 era la prima parte dell’antica veglia di pasqua. Ma la stessa Didascalia, un testo che risale agli inizi del III secolo la fa terminare verso le ore 21 (hora tertia noctis). Detto in parole povere: la veglia di pasqua contenuta nei libri liturgici era un rito vespertino, e non propriamente notturno nel senso che gli diamo noi oggi. Non per nulla il preconio pasquale ripete più volte che si tratta di una celebrazione notturna ma dice pure esplicitamente che è un rito vespertino. Contraddizione? Niente affatto. La notte dei romani iniziava verso le ore 18 e fino alle ore 21 circa costituiva la prima vigilia. se poi ci fosse bisogno di un ulteriore prova sull’origine vespertina della veglia di pasqua, basta considerare che inizia con un lucernare, che è rito tipicamente e inscindibilmente ante vespertino. La riforma del 1955 piuttosto ha preteso di sanare l’anacronismo di un vespro cantato all’ora di Sesta ma ha creato un altro e, forse, peggiore anacronismo facendo cantare le lodi all’ora di Vespro o Compieta!
    La riforma del 1955 poi ha orbato la domenica di Pasqua dei suoi cosiddetti primi vespri. eppure tali primi vespri domenicali sono nati proprio dalla veglia parziale che si celebrava al vespro del sabato.
    Che i primi vespri non siano antichissimi è risaputo, ma se li si toglie alla domenica di Pasqua perché lasciarli a tutte le altre domeniche dell’anno? in effetti liturgisti come Vincenzo Raffa, ne richiedevano la soppressione.

    in conclusione: i riti della vigilia pasquale pre 1955, che terminano coi vespri, rimontano alla più alta antichità. Non solo, ma trovano conferme extra liturgiche sia in Egeria (fine IV secolo) che nella Didascalia (inizio III secolo). Ora, se le fonti liturgiche finora note non vanno oltre il VI secolo. e contengono la veglia con collocazione vespertina esattamente come nei riti pre 1955, la riforma del 1955 (e pure quella del 1969) su che cosa si basano?
    I riti vespertini del sabato santo pre 1955 sprezzantemente definiti roba da museo, sono i riti ininterrottamente celebrati dalla Chiesa, almeno dal III secolo! e non solo a Roma, ma pure a Gerusalemme. (poi sappiamo bene che il lucernare nel rito romano è di introduzione tardiva, ma ciò è altro discorso). Ognuno ovviamente è libero di rivolgere la propria attenzione dove meglio crede, ma francamente non si capisce perché ci si preoccupi dei pochi “musei liturgici” dove si conserva una liturgia che ha attraversato due millenni, che rimonta alla più alta antichità, e che non ha subito manipolazioni per mano di “liturgisti”. Interessante notare come Romano Guardini, presenziando alla liturgia della settimana santa a Monreale, scrisse: “La cosa più bella però era il popolo. Le donne con i loro fazzoletti, gli uomini con i loro mantelli sulle spalle. Ovunque volti marcati e un comportamento sereno. Quasi nessuno che leggeva, quasi nessuno chino a pregare da solo. Tutti guardavano.

    La sacra cerimonia si protrasse per più di quattro ore, eppure sempre ci fu una viva partecipazione. Ci sono modi diversi di partecipazione orante. L’uno si realizza ascoltando, parlando, gesticolando. L’altro invece si svolge guardando. Il primo è buono, e noi del Nord Europa non ne conosciamo altro. Ma abbiamo perso qualcosa che a Monreale ancora c’era: la capacità di vivere-nello-sguardo, di stare nella visione, di accogliere il sacro dalla forma e dall’evento, contemplando.” (R. Guardini, “Spiegel und Gleichnis. Bilder und Gedanken [Specchio e parabola. Immagini e pensieri)”, Grünewald-Schöningh, Mainz-Paderbon, 1990, pp. 158-161. )

    Il problema dei nostri tempi più che i riti sono i liturgisti, che si sentono padroni del rito perché ne conoscono la genesi storica. Ma non lo sono!

  3. Mah, ho letto varie cose del prof. Grillo e sono giunto alla conclusione che la sua teologia è molto semplice e la sua liturgia ancor più. Il nuovo è meglio il nuovo è bello e il non nuovo non lo è. D’altra parte questo è quanto accaduto in massa con e soprattutto subito dopo il Vaticano II. A mio avviso, da parte dei vescovi un clamoroso loss of nerve, una perdita dell’equilibrio. Molto andava cambiato, ma chi cambia veramente non stravolge né adotta il principio che buttare è meglio che conservare. Il risultato è stato un eccessivo gaspillage, uno sciupio. Avrei due domande per i nuovisti ad oltranza. La liturgia come praticata oggi rispetta o no lo spirito e LA LETTERA della Sacrosantum Concilium? A mio avviso, se so leggere, assolutamente NO. E che fine hanno fatto gli insegnamenti della Veterum sapientia, di autore peraltro esaltato ad ogni piè sospinto da chi ritiene il Vaticano II un grande successo senza errori e omissioni se non quelli imposti dai conservatori? Assolutamente ignorati, e cacciati nel dimenticatoio. Ma erano chiarissimi, importanti e firmati da….Giovanni XXIII !.

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