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di Padre Giuseppe Agnello*

* L’autore aderisce ad una riforma ortografica della lingua italiana
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III Doménica di Quarésima, anno A, 12 Marzo 2023
Es 17, 3-7; Sal 94; Rm 5, 1-2.5-8; Gv 4, 5-42

Doménica scorsa, con la trasfigurazione, Gesú ha preparato i discèpoli piú íntimi allo scàndalo della croce, dando loro la speranza della risurrezione, di cui la trasfigurazione è anticipazione. Oggi, nell’incontro con la Samaritana, ci dice «Dammi da bere», mostrando di avere una sete non di acqua, ma della nostra fede, perché se manca la fede in Lui (e l’amore per la Verità) i beneficî della sua Passione non ci raggiúngono; il suo Sacrifício è sprecato; e il suo amore resta sconosciuto. Ciò che non si conosce, infatti, ¿come lo si potrà apprezzare? San Pàolo, solo quando capisce e trova la fede in Gesú, diventa una creatura nuova capace di dire: «L’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori…Dio dimostra il suo amore verso di noi nel fatto che, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi» (Rm 5, 5 e 8). Lo stesso accadrà alla samaritana: capisce che mentre è ancora peccatrice Gesú la ama, le parla, e le annúncia un dono che nessún uomo le ha dato né mai le potrà dare: «l’acqua viva» (Gv 4, v.10) che, bevuta, «diventerà in lei una sorgente d’acqua che zampilla per la vita eterna» (Gv 4, v.14). Quest’acqua viva è l’amore di Dio; è lo Spírito Santo; è il Salvatore che mi accompagna e vive in me. Ha bisogno però della fede che disarma; della fede che fa verità nella nostra vita; della fede che attende il Messia. Senza questa fede, Gesú sulla croce continuerà a dire: «Ho sete», e noi gli daremo però aceto e fiele.
Tutte le letture di oggi pàrlano di quest’acqua.
Nella prima, tratta dall’Èsodo, la bontà di Dio, che vede il pòpolo ebràico assetato, tentato dallo scoraggiamento, ma anche di poca fede, dice a Mosè: «Tu batterai sulla ròccia: ne uscirà acqua e il pòpolo berrà» (Es 17, v.6).
Quest’acqua nel deserto è aiuto concreto alla debolezza di chi non sa vívere la libertà ritrovata e rimpiange la schiavitú senza pensieri. Ma è anche di piú che una stazione per rifocillarsi! Infatti san Pàolo, commentando questo episòdio dell’Èsodo, dirà ai Corinzî che l’aiuto di Dio che ci raggiunge, se continuiamo a desiderare cose cattive, non solo non serve, ma per di piú condanna. Dice: «bevèvano infatti da una ròccia spirituale che li accompagnava, e quella ròccia era il Cristo. Ma la maggiόr parte di loro non fu gradita a Dio e perciò fúrono sterminati nel deserto.
Ciò avvenne come esèmpio per noi, perché non desideràssimo cose cattive, come essi le desideràrono» (1 Cor 10, 4-6).
Perciò il Salmo raccomanda di non indurire il cuore come a Massa e a Meriba, cioè nella “tentazione” di dubitare che Dio ci sia, o nel “lamentarsi” che non si preòccupa di noi. Il Vangelo mostra come questo sia falso, nel brano della Samaritana. Ella è il protòtipo di tutte le persone che stanno sulla difensiva e sono diventate aggressive, o solitàrie, perché hanno sempre avuto il dito puntato, l’etichetta pronta, il màrchio del disprezzo, la marginalizzazione sociale. Questa donna, che sappiamo chiamarsi Fotinai da fonti estrabíbliche, si reca al pozzo di Giacobbe in un’ora in cui spera di non incontrare nessuno: mezzogiorno. Lo fa perché non gode di buona fama: ha avuto cinque mariti ed ora convive con un compagno: vive nel peccato, sperando di trovare giòia in esso. È per di piú samaritana, cioè appartenente a un pòpolo scismàtico, che si era separato dai giudei, e dai giudei riceveva il rimpròvero e l’ostracismo dei condannati. Gesú la avvicina con un diàlogo sereno, ma franco: vuole suscitare la sua fede e ci riesce. Prima la disarma, facendo quello che lei non si aspetta da un giudeo: le rivolge la parola e le parla di un dono di Dio che lei non conosce. Poi fa verità attorno alla sua situazione: «Hai detto bene: “Io non ho marito”. Infatti hai avuto cinque mariti e quello che hai ora non è tuo marito; in questo hai detto il vero» (Gv 4, 17-18); infine fa leva sulla sua religiosità per farle sapere che il Messia che anche lei attende, e da cui è disposta ad imparare, le sta parlando: «Sono io che parlo con te [il Messia]».
Immaginate ora la giòia di questa scoperta: il Salvatore è venuto a cercarmi; mi ha parlato senza offèndermi, ma con tanto amore; mi ha fatto vedere con chiarezza i miei errori e il mio peccato; mi ha insegnato che posso adorare nel mio cuore il Dio dei Giudei, dei Samaritani e di ogni uomo, «in ispírito e verità»; mi ha promesso di farmi diventare acqua límpida e viva che zampilla per la vita eterna.
Gesú ha pazientemente lavorato nel distínguere il peccato dal peccatore: infatti ha accettato le provocazioni e l’ironia di Fotinai, sapendo che il cuore dell’uomo, spècie di quanti sono feriti dai peccato, si apre al cambiamento quando si sa amato. Anche noi dobbiamo imparare quest’arte divina: comunicare la fede, con la calma del Salvatore; con l’amore del Salvatore; con la verità del Salvatore. Portare sulla retta via un fratello o una sorella che sbàgliano, non è un esercízio di virtú pròpria o la ricerca di una glòria personale (quasi fosse un trofeo di càccia). Occorre fare affidamento, con la preghiera, sulla gràzia che ci precede, accompagna e ségue. Gesú lo ha detto con queste parole: «In questo infatti si dimostra vero il provèrbio: uno sèmina e l’altro miete. Io vi ho mandati a miètere ciò per cui non avete faticato; altri hanno faticato e voi siete subentrati nella loro fatica» (Gv 4, 37-38).
Queste parole, come anche le promesse dell’acqua viva che è il Divino Amore riversato nei nostri cuori, ci ripòrtano sempre a Gesú. Egli è l’autore e perfezionatore della nostra fede: crédere in Lui, che è il Seminatore di verità nei nostri cuori e nelle nostre menti, vuol dire rinàscere come creature nuove; scoprire che da sempre è stato con noi; da sempre mi suggeriva una vita bella e senza màcchia; e che, ascoltando la sua voce e i suoi insegnamenti, mi farà miètere ciò per cui non avevo faticato.

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